Facoltà Teologica, inaugurato il nuovo anno accademico

Pubblichiamo di seguito il discorso letto dal Preside, prof. padre Francesco Maceri S.I., il 1 ottobre 2019 per l’Apertura dell’Anno Accademico 2019-2020, XCIII dalla fondazione della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna

 

Il discorso che papa Francesco ha rivolto a studenti, professori, vescovi e sacerdoti convenuti a Napoli per il Convegno La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo[1] ha un’importanza che oltrepassa la circostanza in cui è stato pronunciato. Di questo discorso riprendo un’affermazione che, di primo acchito, può sembrare scontata nel magistero di Francesco: «Direi che la teologia […] è chiamata ad essere una teologia dell’accoglienza e a sviluppare un dialogo con le istituzioni sociali e civili, con i centri universitari e di ricerca, con i leader religiosi e con tutte le donne e gli uomini di buona volontà, per la costruzione nella pace di una società inclusiva e fraterna e anche per la custodia del creato». A tal fine la teologia non deve svigorirsi o diluirsi in scienza umana, in una filosofia del dialogo, ma radicarsi e fondarsi sempre più nel “realissimo rapporto dialogico, offerto e stabilito con noi da Dio Padre, mediante Cristo, nello Spirito Santo, [necessario] per comprendere quale rapporto noi, cioè la Chiesa, dobbiamo cercare di instaurare e promuovere con l’umanità” (Paolo VI, Ecclesiam suam 73). Questo ci sprona a chiederci che cosa abbiamo fatto, che cosa stiamo facendo e, soprattutto, che cosa possiamo fare per essere, come Facoltà Teologica, fermento della «fraternità che Gesù ci ha donato»[2] nella società civile, oltre che nella comunità ecclesiale.

Uno stimolo preciso e prezioso per il futuro può venire dai nostri Vescovi. Nell’adempimento delle loro responsabilità pastorali possono affidare alla Facoltà, per la parte che le compete, il compito di comprendere e spiegare dal punto di vista filosofico-teologico ed etico alcune delle questioni di rilevanza sociale e culturale attuali e urgenti anche nella nostra Isola. Esse domandano certamente un impegno generoso di ascolto e di confronto a livello pastorale, ma anche di ricerca e studio teologico. Un esempio fra i tanti. Si pensi alle intricate questioni legate alle migrazioni, ai rifugiati, alla giustizia ambientale ed economica: la Chiesa può ritenersi appagata ribadendo nei suoi interventi i principi etici razionali e realizzando iniziative valorose e nobili, ma riconducibili a quelle di meritorie organizzazioni di volontariato e caritatevoli? Oppure, mossa dall’amore di Cristo e spinta ad amarlo sempre più, essa deve accogliere queste sfide per parlare di lui, presentarlo, farlo conoscere perché, come dice papa Francesco, «non è la stessa cosa cercare di costruire il mondo con il suo Vangelo piuttosto che farlo unicamente con la propria ragione» (Evangelii gaudium 266)? In questo secondo caso, venendo alla nostra realtà ecclesiale, sarebbe giustificabile programmare e agire pastoralmente quasi che Facultas Theologica Sardiniae non daretur? Forse che la nostra Facoltà Teologica non è chiamata a dare un contributo specifico affinché i credenti della Sardegna sappiano mostrare che il Vangelo di Gesù Cristo è «un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova» (Evangelii gaudium 264)?

La Chiesa può essere presente sulla scena sociale, politica ed economica trascurando di fatto la riflessione teologica, ma rischia di esserlo mettendo tra parentesi Cristo. Sarà allora un’agenzia morale e filantropica, applaudita e apprezzata, ma non la messaggera e la testimone di uno sguardo dall’alto, «dove “l’alto” è quello di Gesù innalzato sulla croce – che permette, nello stesso tempo, di discernere i segni del Regno di Dio nella storia e di comprendere in maniera profetica i segni dell’anti-Regno che sfigurano l’anima e la storia umana»[3] (Papa Francesco, Discorso del Santo Padre, Napoli 21 giugno 2019). Questo sguardo, infatti, può offrirlo la Teologia «con la pratica del discernimento e con un modo di procedere dialogico […] capace di integrare il criterio vivo della Pasqua di Gesù con il movimento dell’analogia, che legge nella realtà, nel creato e nella storia nessi, segni e rimandi teologali» (Idem).

La presenza di una Facoltà Teologica non si giustifica solo per l’espletamento degli insegnamenti curricolari. Nell’offrire la sua disponibilità a servire il ministero pastorale delle nostre Chiese locali, anzi nel domandare ai nostri Pastori una maggiore e puntuale considerazione della sua vocazione specifica, non riducibile a quella di un Istituto Teologico per aspiranti al Sacerdozio, la Facoltà non è mossa da presuntuosità. In questa offerta e in questa domanda è compresa la consapevolezza sia dei propri limiti sia della necessaria apertura al dialogo, al confronto e alla collaborazione con le istituzioni teologiche locali e del continente, gli Uffici diocesani di pastorale e i centri culturali e formativi dell’Isola. Apprendiamo con interesse e riconoscenza che «la CES dedica sovente spazi di riflessione in riferimento alla Facoltà Teologica» (S.E. Mons. R. Carboni, Notiziario, giugno 2019, 6), ma auspichiamo – credo di poter parlare a nome di molti altri – un passo ulteriore: la Facoltà sia coinvolta in discussioni argomentate con coloro che prendono decisioni pastorali determinanti nelle Chiese locali della Sardegna.

Rimanendo nella prospettiva dischiusa dall’invito di papa Francesco, vorrei accennare a un punto che, a mio parere, dovrebbe diventare presto oggetto di un discernimento che coinvolga diverse componenti ecclesiali. Intendo il rapporto tra la Facoltà e il Seminario Regionale. L’affermazione dei nostri Statuti riguardo alle implicazioni concrete che derivano dal particolare rapporto che vincola il Seminario con la Facoltà conserva la sua validità e attualità (Art. 8.2). Tuttavia, in un contesto culturale, sociale ed ecclesiale profondamente mutato, tale rapporto deve continuare a intendersi e rispettarsi com’è stato finora? La risposta deve essere trovata, ma aggiungo una breve considerazione, che potrebbe aiutare a individuare la prospettiva per cercarla. A mio parere siamo dinanzi a un rischio da evitare e a una opportunità da accogliere. Il rischio è che il rapporto sia di fatto una sorta di àncora che quasi faccia ormeggiare la Facoltà nel porto tranquillo del ciclo filosofico-teologico istituzionale con l’annessa attività didattica regolare, importante, esauriente; l’opportunità è che il rapporto si configuri come un legame di amicizia, che crei un’unità nella quale si apra lo spazio di conoscenza approfondita e di comunicazione con il mondo reale, ormai scristianizzato. In questo nuovo orizzonte, più ampio, alla Facoltà Teologica verrebbe chiesto di perseguire e attuare lo scopo irrinunciabile e fondamentale della formazione accademica del futuro clero, organizzandosi e strutturandosi in modo da «sviluppare un dialogo sincero con le istituzioni sociali e civili, con i centri universitari e di ricerca, con i leader religiosi e con tutte le donne e gli uomini di buona volontà». La teologia dell’accoglienza e del dialogo delineata da Francesco, pertanto, non sarebbe un’attività a latere, rispetto alla formazione teologica dei seminaristi, ma il suo presupposto e la sua caratterizzazione. Non un legame da allentare, dunque, bensì da stringere in modo nuovo nella prospettiva della comune vocazione delle due Istituzioni a formare discepoli-missionari per un mondo che non è più cristiano, forse neppure quando, a motivo di certe manifestazioni pubbliche, crediamo di avere le prove che ancora lo sia.

La Teologia auspicata dal Papa chiede ai teologi di esaminarsi per scoprire se e come «rischiano di essere inghiottiti nella condizione del privilegio di chi si colloca prudentemente fuori dal mondo e non condivide nulla di rischioso con la maggioranza dell’umanità». Lo stesso pensiero l’ha scritto molti anni fa A.D. Sertillanges: «Se lo studio vuol essere un atto di vita, non arte per l’arte e accaparramento dell’astratto, deve lasciarsi guidare da questa legge d’unità cordiale: ‘Noi preghiamo davanti al Crocifisso’ e davanti al Crocifisso dobbiamo anche lavorare, ‘ma la vera croce non è isolata dalla terra’» (La vita intellettuale). Una Facoltà culturalmente presente e viva nella città dell’uomo è impensabile senza un corpo docenti che, da una parte, abbia a disposizione il tempo e gli strumenti necessari per dedicarsi allo studio, alla ricerca e alla collaborazione e, dall’altra, sia pienamente consapevole di dover rispondere a una vocazione ecclesiale, e non solo di assecondare e sviluppare aspirazioni e inclinazioni personali legittime.

Un ultimo e breve riferimento al Discorso del Papa. «Noi pensiamo – ha detto – che la “sindrome di Babele” sia la confusione che si origina nel non capire quello che l’altro dice. Questo è il primo passo. Ma la vera “sindrome di Babele” è quella di non ascoltare quello che l’altro dice e di credere che io so quello che l’altro pensa e che l’altro dirà. Questa è la peste!». Non si possono tralasciare queste parole, ignorando così un’attitudine in sé distruttiva, che tende a diffondersi e non è facile da estirpare. Si può prevenire e curare questa «peste» mediante l’attività stessa dello studio? In altre parole, lo studio in quanto tale, a prescindere dai suoi contenuti, può aiutarci a prevenire o superare la sindrome di Babele? Riprendendo il testo di Simone Weil Riflessione sul buon uso degli studi in vista dell’amore di Dio[4], possiamo rispondere: sì, purché si ponga al centro degli studi, della ricerca e dell’insegnamento la formazione della facoltà dell’attenzione. Per attenzione Simone Weil non intende «una sorta di sforzo muscolare, di corrugare le soppracciglia, trattenere il respiro, contrarre i muscoli», bensì «sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto, nel mantenere in sé stessi, in prossimità del pensiero ma a un livello inferiore, e senza che vi sia contatto, le diverse conoscenze acquisite che si è costretti a utilizzare». L’attenzione implica sia una perdita, un distacco da sé, una dimenticanza di sé, sia l’amore che apprezza un oggetto nella sua particolarità. L’attenzione è ciò che consente a un soggetto di uscire dal suo mondo così che le cose possano essere apprezzate per quello che sono. Consiste in un atteggiamento di recettività attiva. Trovandosi dinanzi a un problema o a una questione il soggetto non segue l’impulso immediato di cercare una risposta, ma pazienta, e attende che la verità si mostri. Contrariamente a quanto accade nel lavoro manuale, dice la Weil, nell’attività intellettuale non serve lo sforzo della volontà, ma è necessario il desiderio della verità. «Se c’è veramente desiderio, se l’oggetto del desiderio è davvero la luce, il desiderio di luce produrrà la luce».

Coltivare la formazione all’attenzione domanda che non si studi principalmente in vista dei risultati, del conseguimento dei gradi o dell’allungamento della lista delle pubblicazioni, bensì per la sola gioia della verità. «Veritatis gaudium […] il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio» (VG 1), questo è ciò che previene e guarisce dalla “peste di Babele”.

 

 

 

[1]     Discorso disponibile sul sito della Santa Sede http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/june/documents/papa-francesco_20190621_teologia-napoli.html (consultato il 25 settembre 2019).

[2]     «Qual è il messaggio universale del Natale? Ci dice che Dio è Padre buono e noi siamo tutti fratelli. Questa verità sta alla base della visione cristiana dell’umanità. Senza la fraternità che Gesù Cristo ci ha donato, i nostri sforzi per un mondo più giusto hanno il fiato corto, e anche i migliori progetti rischiano di diventare strutture senzanima» (Papa Francesco, Discorso Urbi et Orbi, Natale 2018; disponibile nel sito della Santa Sede http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/urbi/documents/papa-francesco_2018225_urbi-et-orbi-natale.html (consultato il 25 settembre 2019); la sottolineatura è mia.

[3]     Vorrà dire qualcosa che il Papa abbia preferito parlare di segni del Regno di Dio e segni dell’Anti-Regno, anziché direttamente di ‘segni dei tempi’? Considerando il suo background ignaziano, è possibile che nelle sue parole ci sia un riferimento implicito ai Due vessilli degli Esercizi Spirituali? Ha offerto alla teologia un criterio di discernimento preciso per un più facile riconoscimento dei segni dei tempi, della presenza di Cristo nel contesto storico dell’oggi? Penso che la risposta a queste domande debba essere affermativa.

[4]     Una copia del testo vi sarà consegnata al termine; vi invito a leggerlo a fondo. In esso Simone Weil mostra come la formazione della facoltà dell’attenzione sia di per sé una preparazione alla preghiera e alla compassione per il prossimo, e ci aiuta a pensare e vivere lo studio, la preghiera e l’amore del prossimo come un ‘insieme’.

 

 

Attività culturali della e nella Facoltà