
Quando il direttore de L’Arborense mi ha chiesto di raggiungere monsignor Pier Giuliano Tiddia per intervistarlo, in prossimità del suo Giubileo episcopale d’oro, ho subito capito che non potevo perdere questo appuntamento con la storia.
Non avevo mai avuto modo di incontrarlo prima d’ora, ma chiaramente ne avevo sempre sentito tanto parlare.
Con emeozione, allora, gli ho potuto rivolgere alcune domande dopo che, nel suo appartamento di Cagliari, ha accolto me e don Cristiano Piseddu, sacerdote di Cagliari che spesso gli fa visita e che mi ha messo in contatto con lui.
Monsignor Pier Giuliano Tiddia con piacere ha condiviso alcuni ricordi più significativi del suo ministero.
Nei suoi occhi e dalla sua voce era ben percepibile l’emozione e la gioia di ringraziare il Signore celebrandolo nella propria storia.
Qual è il ricordo più vivo di quel 2 febbraio di cinquanta anni fa?
Ricordo questo particolare: avevamo pranzato molto tardi perché il cardinale (Sebastiano Baggio, n.d.r.) aveva un impegno, dunque abbiamo fatto dalla mensa alla Messa; e il travaglio di quello che stava per capitare è arrivato improvvisamente. Poi ricordo la presenza di tutti i vescovi della Sardegna: c’erano tutti tranne quello di Oristano. Quel giorno non c’era stata la concelebrazione dei sacerdoti, concelebravano solo i vescovi. È chiaro che, pensando a ciò che stava capitando, nel cuore sentivo l’ansia, la preoccupazione, in particolare durante il momento della prostrazione che significa la nullità dell’uomo. La celebrazione è iniziata alle 16 e finita alle 18. Ricordo che il card. Baggio era invitato a un incontro, e avevano invitato anche me e sono dovuto andare, mentre avrei preferito stare per conto mio, tranquillo. Solo dopo ho cominciato a pensare e capire, giorno per giorno, alla vita del vescovo. Già il giorno successivo andai a Dolianova, nella parrocchia di San Biagio, per la festa del patrono. E così è cominciata la vita da vescovo: correre qua e là, un compito e una missione che costa, tante volte fa piacere, ma costa.
Ha citato la presenza dei vescovi tra i ricordi di quel giorno. Lei da cinquant’anni fa parte del collegio episcopale. Sono passati cinque Pontefici, ha conosciuto come fratelli nell’episcopato quattro arcivescovi di Oristano, due predecessori e due a lei successivi, ha ordinato due vescovi (mons. Atzei e mons. Cassari), e ancora oggi, una settimana dopo il suo giubileo, verrà ordinato un nuovo vescovo per la Chiesa sarda. Questo ci dice la vivacità della Chiesa: che sentimenti prova pensando a ciò?
Sono particolari che ho notato anche io. Prima di me, a Oristano, c’era stato mons. Piovella, che mi ha conferito gli ordini minori, essendo stato mio arcivescovo, poi mons. Giuseppe Cogoni che conoscevo già e incontrai anche prima di partire per Cuglieri, poi lui morì ancora giovane. In seguito di vescovi ne ho incontrati tanti, cari amici, molti li ho incontrati da seminarista e poi ne ho incontrati tantissimi come fratelli nel ministero. Ho vissuto molto l’esperienza della fraternità episcopale. Penso poi al rapporto di stretta vicinanza con mons. Bonfiglioli e mons. Canestri, di cui sono stato ausiliare a Cagliari. Oltre a essere stato vescovo ordinante di mons. Atzei sono stato anche co-consacrante di diversi altri vescovi sardi: mons. Pala, mons. Piseddu, mons. Vacca, mons. Orrù, mons. Cassari, mons. Sanna e mons. Pintor tra quelli che ricordo.
Una fraternità che ha vissuto in maniera ancor più forte negli anni del Concilio Plenario Sardo, un evento a lei molto caro…
Il Concilio Plenario Sardo è stato un tentativo nato nella Conferenza Episcopale Sarda su iniziativa di mons. Canestri. Ci siamo messi in cammino, io fui nominato Segretario generale, ricordo che ci furono molti incontri, per lo più a Oristano, perché al centro. Abbiamo poi varato il documento finale che purtroppo è andato nel dimenticatoio, forse non si è valorizzato appena terminato il Concilio, ma è un documento il cui valore è stato riconosciuto anche dalla Santa Sede.
Il vescovo è fratello con gli altri vescovi ma anche padre per i fedeli e per i suoi presbiteri. Qual è il suo ricordo di paternità?
Il mio ricordo in questo senso, legato alla paternità, è nelle visite pastorali in cui si stava a contatto con la gente. Visite pastorali ne ho fatte parecchie, ho fatto la prima visita parrocchia per parrocchia ed è durata quattro anni. Dopo ho deciso di fare la visita pastorale per vicaria, cioè riunendo in vari incontri i preti e anche i laici impegnati per decidere attività comuni: questo è stato più efficace, nel senso che ha creato l’unità di intenti, proposto attività nuove che venivano prese in accordo. Di tutto questo ci sono i documenti.
Continua anche oggi a vivere la paternità?
Dobbiamo essere padri! È bello perché tante persone che ho conosciuto sono ancora in contatto con me, soprattutto quelli che ho conosciuto nell’ambiente universitario della FUCI, gruppo che si è formato cinquanta anni fa e che ancora oggi vive. Prima, sino a qualche anno fa, ci incontravamo ogni mese per la Messa e per discutere di problemi vari, dubbi sulla Chiesa e le difficoltà del presente. Tanti di questi ancora mi telefonano dato che ora non ci possiamo incontrare più facilmente. Anche oggi ho ricevuto una telefonata di una mia ex alunna del liceo. Cerco di essere vicino ai preti sia di Oristano che di Cagliari, per esempio in occasione dell’anniversario di ordinazione o del compleanno, e accolgo quanti mi vengono a trovare. Conservo, insieme all’elenco di tutti coloro che ho ordinato, anche la traccia dell’omelia fatta per la loro ordinazione. Ogni giorno celebro l’Eucarestia in suffragio di un sacerdote defunto e, per quanto mi è possibile, vado a trovare, qui a Cagliari, alcuni sacerdoti anziani e ammalati.
Come immaginava, tanti anni fa il futuro che oggi è presente?
Penso al Concilio che era finito da poco, sembrava che tutto andasse, se non a gonfie vele, abbastanza bene. Poi siamo calati e ci siamo arresi. Secondo me questo è uno sbaglio. Oggi c’è un clima di resa, secondo me pensiamo che non ci sia nulla da fare. È sbagliato!
La spaventa questo periodo di crisi vocazionale?
È chiaro ci sia un raffreddamento di fede, ma forse c’è stata una riduzione qualitativa nella proposta vocazionale, Dio chiama e senz’altro chiama, ma non ci chiama per sederci in poltrona, bisogna avere il coraggio di ascoltarlo; certo che mi preoccupa il fatto dei seminari chiusi: io sono stato rettore del seminario e l’ho lasciato che ospitava una scuola media e un liceo interno; in quel periodo ci fu anche il trasferimento da Cuglieri a Cagliari e accogliemmo nel seminario diocesano i seminaristi delle diocesi sarde.
Se potesse tornare ora a Oristano, cosa vorrebbe rivedere, chi vorrebbe ri-incontrare, che ricordo vorrebbe rinfrescare?
Io avevo una frequenza familiare con le scuole superiori, ogni anno visitavo, dopo il primo semestre le scuole superiori: ricordo benissimo sia quelle di Oristano che quelle sparse in altre zone dell’Arcidiocesi. Facevamo un’assemblea: parlavo io ma poi li ascoltavo. E la pastorale nelle scuole mi fu tanto cara. La facevo ogni anno: che fosse utile però non lo so. Già a Cagliari avevo lavorato molto a scuola: insegnavo religione in un Liceo classico. Ho chiaramente tanti e bei ricordi del mio ministero di Arcivescovo di Oristano, anche del Presbiterio. In particolare vorrei ricordare mons. Mario Carrus, mio vicario generale. È stato un valido collaboratore, che non scelsi io: la moltitudine del clero volle la sua nomina, era gradito. Sono stato anche a trovarlo negli ultimi mesi della malattia.
Quali altri incarichi portò avanti?
Sono stato Amministratore apostolico in Ogliastra e ad Ales-Terralba mentre aspettavano il loro vescovo. Sono stato presidente della commissione problemi giuridici della CEI, sono stato presidente della CES. Per due anni ho curato il commento al vangelo su L’Osservatore Romano. A Cagliari da ausiliare sono stato un po’ più che ausiliare: prima di tutto mons. Bonfiglioli è stato vice presidente della CEI, quindi più impegnato; poi c’è stato un periodo in cui mons. Bonfiglioli non è stato bene di salute. Poi arrivò mons. Canestri che neanche arrivato stette male, tanto da non poter celebrare il suo ingresso in diocesi perché rimase per un paio di mesi in ospedale. Io gli fui vicino in quel periodo.
Abbiamo iniziato il Giubileo della Speranza: possiamo salutarci con una parola di speranza?
La Chiesa ci dà continuamente parole di Speranza. Noi dobbiamo chiederci: e io cosa devo fare? Io non posso che pregare, ma quelli che sono in condizione di salute migliore possono fare qualcosa di più. Tutti si interroghino: cosa devo fare?
Grazie Eccellenza per il suo Sì generoso alla Chiesa, come successore degli Apostoli, dato una volta per sempre cinquanta anni fa. Questo per sempre lo testimonia nell’esercizio di un ministero di preghiera, prossimità ai malati e paternità spirituale. Oggi lei è il decano dei vescovi sardi, è dunque memoria storica della Chiesa sarda ma anche testimone di vita donata alla Chiesa.
A cura di Matteo Lutzu