Diocesi

Tempio - Ampurias Sassari Alghero - Bosa Ozieri Iglesias Ales Cagliari Lanusei Nuoro Oristano

Dati relativi alla regione ecclesiastica:

Superficie in Kmq*: 24.653
Abitanti*: 1.666.569
Parrocchie*: 618
Numero dei sacerdoti secolari*: 768
Numero dei sacerdoti regolari*: 260
Numero dei diaconi permanenti*: 95

Storia

LE ORIGINI. La notizia della più antica presenza cristiana in Sardegna riguarda una lista di condannati alle miniere nel sud-ovest dell’isola, preparata da Vittore vescovo di Roma su richiesta di Marcia, favorita dell’imperatore Commodo (180- 192) e forse cristiana, da accludere a una lettera liberatoria dello stesso imperatore; ne beneficiò anche il futuro papa e martire Callisto I (217-222), colà deportato non perché cristiano ma condannato per peculato. Degli altri graziati si sa solo che quella condanna dipendeva dalla loro fede. Nel 235, sotto Massimino il Trace, toccò al vescovo romano Ponziano di essere confinato «in Sardegna, un’isola malsana», dove cessò di vivere dopo feroci maltrattamenti, in località imprecisata; pochi anni dopo, però, la memoria del sito della tomba consentì la traslazione dei suoi resti a Roma. Risale al 314 la prima attestazione a Cagliari di una comunità cristiana dotata delle essenziali articolazioni di personale e di ministeri, guidata da un vescovo proprio – il primo o i primi di loro, giunti probabilmente dall’Africa – e attiva nella propagazione della nuova fede: gli oltre quarant’anni di pace goduti dal cristianesimo prima della persecuzione di Diocleziano (303-305) favorirono il proselitismo iniziato dai primi annunciatori – provenienti per lo più dalle aree di Roma e di Cartagine – anche in altri centri urbani della costa: lo provano i martiri, il cui culto risale alla fine del IV sec.-inizi del V: Gavino a Porto Torres (Turris Libisonis), Lussorio a Fordongianus (Forum Traiani), Antioco a Sant’Antioco (Sulci), Efisio a Nora, Saturno a Cagliari; forse più tardivo è il culto di Simplicio, pur sicuramente attestato «in Sardinia» dal Geronimiano, a Olbia. Quintasio di Cagliari fu tra i circa quaranta vescovi occidentali convocati da Costantino al sinodo di Arles (314). Una risonanza maggiore dette a questa sede Lucifero (353-370) che, assieme al sardo Eusebio, vescovo di Vercelli, fu legato di papa Liberio, prima presso Costanzo II (353) ad Arles e poi al concilio di Milano (355) per la difesa dell’ortodossia nicena osteggiata dall’imperatore. Contro l’arianesimo Lucifero mostrò un’opposizione irriducibile anche durante l’esilio cui fu condannato da Costanzo (355-361) nella periferia sud-orientale dell’impero: per l’occasione scrisse cinque libelli ferocemente polemici. Morì attorno al 370.

SOTTO LA DOMINAZIONE DEI VANDALI. Dopo Lucifero, della Chiesa sarda si sa qualcosa solo nella seconda metà del V sec., quando i suoi cinque vescovi (di Carales, Sulci, Forum Traiani, Senafer-Cornus, Turris) parteciparono al dibattito teologico di Cartagine (484), al quale il re vandalo Unnerico aveva precettato tutti i vescovi cattolici del suo regno: qualche decennio prima, insieme con Africa, Corsica e Baleari, anche l’isola era stata conquistata dai vandali. Fino ad allora la Chiesa sarda, accresciuta di nuove sedi fin dalla metà del IV sec., aveva visto nel vescovo di Roma il proprio metropolita. Dopo la conquista vandalica, forse papa Leone I (440-461) o il suo successore, il sardo Ilaro (461-468), dovettero costituire le sedi sarde in provincia ecclesiastica autonoma, con il vescovo di Cagliari come metropolita. La politica religiosa dei vandali in Sardegna non fu quella di un arianesimo militante come in Africa: sia le Chiese isolane sia i numerosi vescovi africani (oltre cento) che vi furono esiliati non subirono alcun impedimento nella loro attività; anzi, fino al 523 quando essi poterono tornare in Africa, uno di loro, Fulgenzio di Ruspe, poté liberamente scrivere e corrispondere con personalità e Chiese d’Occidente e d’Oriente. A lui si deve anche l’introduzione del monachesimo nell’isola. La presenza di tanti vescovi rafforzò i rapporti tra le due Chiese, ciò che si manifestò con influssi nel culto dei martiri africani, nell’architettura, nel costume (refrigerium), nell’organizzazione ecclesiastica (fondazione di due nuove sedi vescovili, Fausiana e Tharros), negli scambi dottrinali che sembrano riaffiorare oltre un secolo dopo, in un appello congiunto delle Chiese d’Africa e di Sardegna al papa Vigilio (545) convocato a Costantinopoli da Giustiniano e ancora più tardi durante la crisi monotelita (metà VII sec.).

L’ETA’ DI GREGORIO MAGNO (590-604). Nonostante i numerosi deperditi, le sue trentanove lettere «sarde» contengono quasi l’80 per cento di tutte le informazioni sulla Chiesa durante il primo millennio. Si va dai molti aspetti della situazione politico-militare, a quelli relativi all’organizzazione ecclesiastica (una provincia con sei sedi suffraganee – Sulci, Tharros, Forum Traiani, Senafer-Cornus, Turris, Fausiana – facenti capo al metropolita, l’arcivescovo di Cagliari; due sinodi annuali, un ben rodato corpus di canoni e consuetudini, assistenza per poveri e pellegrini, un vivace movimento monastico maschile e femminile). La lacuna più grave, tra monaci, clero e vescovi, sembra essere stata l’assenza di coscienza missionaria sia verso la popolazione rurale, dove persistevano numerosi pagani persino nelle terre delle stesse Chiese, sia verso altre popolazioni non ancora romanizzate, tra cui quella dei barbaricini. Gregorio si interessò alla loro conversione inviando nell’isola il vescovo Felice e l’abate Ciriaco, stimolando i vescovi fra cui si distinse Vittore, il vescovo della ricostituita Fausiana, sollecitando l’aiuto delle autorità bizantine e dello stesso Barbaricinorum dux, inaspettatamente cristiano; piuttosto deludente, invece, la condotta del metropolita Gianuario.

L’ETA’ BIZANTINA (VI – X SEC.). La riconquista bizantina nel 534 aveva segnato una vivace ripresa dei contatti con Roma, peraltro mai interrotti; anzi, tanto è sicuro il legame politico-militare dell’isola con il centro dell’Impero, quanto lo è quello ecclesiastico con Roma dove, durante il sinodo di papa Martino I nel 649, ebbe un posto di rilievo Diodato di Cagliari; la violenta reazione di Costante II alla condanna del monotelismo si fece sentire anche in Sardegna con le disavventure del vescovo di Sulci Eutalio, costretto ad abiurarla e a consegnare gli scritti antimonoteliti di Massimo il Confessore. È certo però che, a partire dalla seconda metà del VII sec., furono numerosi gli influssi di persone (ad es., i presuli di Sulci Eutalio, di Cagliari Citonato presente al Costantinopolitano III del 680-681, più tardi – attorno alla metà del X sec. – i due Arseni a Cagliari, il primo forse iconoclasta, l’altro sicuramente iconòdulo), di lingua (il codice bilingue degli Atti degli apostoli – greco e latino – scritto a Roma alla fine del VI sec., presente in Sardegna alla seconda metà del VII, ora nella Bodleian Library), di culti (influsso del santorale greco), di usanze liturgiche (attestate anche da filastrocche popolari), di architetture e di onomastica provenienti dall’Oriente bizantino; anzi, non si è ancora finito di individuarli e studiarli con precisione, evitando però uno sterile «iperbizantinismo»: in effetti, non appena la documentazione riaffiora con una certa continuità, come tra l’847 e l’886, i rapporti tra il vescovo di Roma e la Chiesa sarda vi appaiono talmente saldi da rendere improponibile un’appartenenza di quest’ultima al patriarcato di Costantinopoli.

LA RIPRESA DELL’XI SEC. La fine della dominazione bizantina si produsse lentamente a seguito della conquista islamica dell’Africa (fine VII sec.: nell’occasione, i resti di sant’Agostino vennero trasferiti in Sardegna e di lì, nella prima metà dell’VIII, a Pavia) e della Sicilia (fine del IX): sottoposta a continue incursioni, l’isola dovette provvedere alla propria difesa con nuove strutture politico-militari che, pur conservando a lungo molti elementi culturali del lontano Impero, di fatto – almeno a partire dai primi decenni del X sec. – si comportavano autonomamente. Il movimento subì un’ulteriore accelerazione dopo il tentativo nel 1015-1016 di Muja¯id, signore di Denia (il Museto delle fonti italiane), di conquistare l’isola al cui aiuto accorsero pisani e genovesi ben decisi a impedire la nascita di una base saracena di fronte alle coste tirreniche. Ciò favorì l’intensificarsi dei rapporti tra la Sardegna (che dalla prima metà dell’XI sec. appare divisa in quattro entità politico-amministrative autonome, i «giudicati » di Cagliari, Arborea, Torres e Gallura, ciascuno di essi qualificantesi come «regnum») e il mondo esterno, rappresentato sia dalle due repubbliche marinare interessate a quel nuovo mercato sia dalla Santa Sede, in quel momento in lotta aperta con imperatori, re e principi, per sottrarsi alle loro intromissioni che ne condizionavano l’esistenza attraverso il sistema delle investiture e ben decisa a estendere anche alla Chiesa sarda il suo influsso riformatore. Sono noti gli interventi di alcuni pontefici che dettero un nuovo corso ai rapporti tra Sardegna e Santa Sede: Alessandro II (1061-1073) vi mandò un legato che, d’accordo con i giudici, creò il nuovo quadro organizzativo ecclesiastico, in parte tuttora valido (tre sedi metropolitane: Cagliari, con le suffraganee di Sulci, Dolia e Suelli, nel Giudicato di Cagliari; Oristano con Santa Giusta, Usellus e Terralba, in quello d’Arborea; Torres con Ampurias, Ploaghe, Sorres, Bosa, Castro, Bisarcio e Ottana, in quello di Torres; direttamente dipendenti dalla Santa Sede, perché non in grado di formare una provincia autonoma, le sedi di Civita e Galtellì nel Giudicato di Gallura); Gregorio VII (1073-1085) costrinse i giudici a collaborare e ad usare anche mezzi coercitivi per imporre la sua politica di riforma al clero: che però non mirasse al dominio politico sull’isola emerge dal raffronto tra la sua politica «sarda» e quella verso la Corsica; Urbano II (1088-1099) legò i destini dell’isola a Pisa, concedendo al suo presule l’ufficio di legato perpetuo della Santa Sede con il potere di celebrarvi sinodi generali: ulteriori privilegi gli furono accordati dai suoi successori, per cui quel presule divenne anche primate delle singole province ecclesiastiche, metropolita di Civita e Galtellì, in tal modo facilitandovi la penetrazione artistica, culturale, commerciale e politica della sua città. Nel frattempo, a partire dal 1063 e solitamente per iniziativa di giudici, papi e vescovi, la Sardegna si arricchì anche di nuovi insediamenti monastici ispirati alla regola benedettina: l’identificazione delle molteplici tracce lasciate da cassinesi, vittorini, camaldolesi, vallombrosani, cistercensi è ancora lungi dall’essere completa – e non si limitò alle architetture, che ancora ne segnano il paesaggio rurale –, ma toccarono altri aspetti, dall’organizzazione del lavoro alla codificazione della stessa lingua sarda di cui essi si servirono nei condaghi per registrare le vicende patrimoniali dei loro monasteri.

 

VI – Verso l’infeudazione di Bonifacio VIII

Non è provato che prima della metà del XII sec. i papi abbiano avuto mire politiche sull’isola, attestate invece sotto forma di dominium eminens dalla seconda metà di quel secolo, forse come reazione alla politica «insulare» di Federico Barbarossa (1164 e 1165). Da allora, ogni iniziativa imperiale, pisana o genovese volta ad affermare la sovranità dei rispettivi poteri sull’isola fu rintuzzata da precise reazioni pontificie: una posizione che finì per imporsi, soprattutto con Innocenzo III (1198-1215), fino alla richiesta del giuramento di fedeltà dei giudici. Questa nuova politica, continuata dai suoi successori, inasprì i loro rapporti con Pisa e il suo presule; pur conservando la sua titolatura, questi venne privato di ogni influsso sulla Chiesa sarda: una posizione di fatto sanzionata dal sinodo «nazionale» di Santa Giusta (1226), presieduto da un legato inviato da Onorio III, anche per adattare alla realtà sarda i decreti del Lateranense IV (1215). Tuttavia, l’impossibilità per il papato di costringere Pisa a mutare la sua politica espansionista – dei quattro Giudicati era rimasto indipendente solo quello di Arborea –, persuase i papi che il modo migliore per dare corpo al loro dominium eminens sull’isola – un diritto, almeno in teoria, accettato anche da Pisa – fosse quello di darla in feudo a un personaggio allo stesso tempo forte e deciso a imporvi il proprio dominio effettivo in nome della Santa Sede. L’infeudazione concessa nel 1297 da Bonifacio VIII del regnum Sardiniae et Corsicae a Giacomo II d’Aragona in cambio della rinuncia di questi alla Sicilia occupata durante la guerra del Vespro, rispondeva anche ad altre esigenze: soltanto la pace tra questo sovrano e la Francia, un obiettivo irraggiungibile se quest’isola non fosse tornata agli Angiò imparentati con la dinastia francese e ai quali il papato l’aveva in precedenza assegnata, avrebbe consentito alla cristianità di riprendere la riconquista della Terrasanta, da poco rioccupata completamente dall’islam.

 

VII – Il periodo aragonese (1324-1478)

Nel propiziare la rapida conquista aragonese, oltre il favore dei pontefici, ebbe un ruolo importante l’ostilità verso Pisa, diffusa nella società e nella Chiesa sarde come lo era l’attesa quasi messianica della prossima «venuta» del re d’Aragona. Fu forse il papato che, almeno all’inizio, trasse i maggiori vantaggi dalla conquista (1324-1326): avrebbe potuto contare sul versamento di duemila marchi d’argento annui (circa 500 kg) come censo feudale del sovrano aragonese e sull’estensione all’isola degli effetti del centralismo e fiscalismo (riserva alla Santa Sede di tutti i benefici ecclesiastici e delle relative entrate derivanti da questo diritto) elaborati dalla curia avignonese. Meno fortunate furono la società e la stessa Chiesa isolane sulle quali si abbatté il sistema feudale imposto dai conquistatori e realizzato in maniera rigorosa su quasi tutto il territorio; l’organizzazione patrimoniale dei monasteri, già intaccata da pisani e genovesi, ne fu scardinata, fatto che ne provocò la fine, né furono risparmiati i cospicui patrimoni fondiari delle sedi vescovili; inutili risultarono le proteste pontificie al sovrano aragonese che, nono stante tutte le precedenti assicurazioni, aveva avviato un processo ormai non più controllabile; lo stesso versamento del censo diventò sempre più difficile nonostante le scomuniche contro il sovrano inadempiente; si arrivò addirittura a un passo dal ritiro della bolla di infeudazione. Lo scisma d’Occidente, poi, coinvolse anche la Sardegna, con l’obbedienza romana seguita dal solo Giudicato d’Arborea in lotta contro gli aragonesi. Una lotta iniziata dalla seconda metà del XIV sec., a cui si aggiunsero le ripetute ondate di peste e carestia con l’abbandono della maggior parte dei centri abitati (dei circa 830 ne rimasero poco più di 350); fenomeni che toccarono il punto più basso col censimento del 1480 che registrò poco più di 26.000 fuochi «fiscali» per tutta l’isola, circa 200.000 abitanti; furono abbandonati persino alcuni centri già sedi di diocesi, con le loro splendide cattedrali ridotte a chiese «campestri». Il ritorno della pace segnò la scomparsa dell’ultimo Giudicato (quello d’Arborea) che si era fino ad allora considerato indipendente (1409-1410); l’abilità di Alfon – so V, il futuro Magnanimo, fece il resto, non solo con l’eliminazione di ogni forma di contestazione politica ma anche con il totale superamento di ogni dipendenza feudo-vassallatica della corona d’Aragona dalla Sede apostolica relativamente alla Sardegna: d’ora in avanti non si parlò più di infeudazione né di censo se non come di ricordi storici.

 

VIII – Il periodo spagnolo (1479-1720)

Con la salita al vertice della corona d’Aragona di Ferdinando II, già re di Castiglia dal 1474, la Chiesa sarda entra nel periodo dell’assolutismo, nonostante il rispetto formale delle autonomie mutuate dalla tradizione catalano-aragonese. I primi riverberi di questa nuova situazione si ebbero con la ripresa della celebrazione dei parlamenti a cui intervenivano, insieme ai rappresentanti dei feudatari e delle città regie anche quelli del clero, diventato così una componente costituzionale del regnum Sardiniae. Nel 1492 ci furono anche l’introduzione dell’Inquisizione spagnola e la cacciata degli ebrei. L’accresciuto potere del sovrano, oltre a imporre vescovi graditi, ottenne dalla Santa Sede anche la revisione della mappa ecclesiastica (1503) articolata attorno alle tre sedi arcivescovili: quella di Sassari (dove nel 1441 era stata trasferita quella di Torres e a cui erano state unite le sedi di Sorres e di Ploaghe) ebbe come suffraganee Ampurias (con l’unita Civita), Bosa e Alghero (una nuova diocesi formata dall’unione di Bisarcio e Castro a Ottana e dalla traslazione di questa ad Alghero); quella di Oristano ebbe unita Santa Giusta e tenne come suffraganea solo Usellus (o Ales) con l’unita Terralba; infine quella di Cagliari, cui furono unite prima Suelli e Galtellì, poi Dolia e Sulci (Iglesias) e che rimase senza suffraganee. La revisione era stata guidata non da motivazioni pastorali (come capoluogo della diocesi di Alghero, il cui corpo – separato – era costituito da territori siti nell’interno dell’isola, fu posta una cittadina marittima, per di più catalana; per non parlare della diocesi di Cagliari, oltre due quinti dell’intera isola, impossibile da governare e visitare), ma da ragioni politiche ed economiche (garantire ai sette vescovi superstiti uno status meno indecoroso, ma lasciando in piedi scandalose disuguaglianze). I papi dovettero anche rinunziare a una funzione che, in epoca avignonese, avevano sottratto alle chiese locali: toccò a Clemente VII concedere a Carlo V il diritto di patronato sulla Chiesa sarda e di presentazione dei nuovi vescovi (1531): ovviamente, i prelati di origine iberica sarebbero stati preferiti nell’assegnazione delle sedi più prestigiose e ricche e meno esposte alla malaria (lo erano Oristano, Bosa e Ales), che per sei mesi (giugno-novembre) costringeva i presuli ad assentarsi dalla sede. Eppure, questa era già una situazione ottimale che – per ciò che tocca la residenza dei vescovi – dovette attendere l’entrata in vigore dei decreti del Tridentino; in precedenza, e per quasi due secoli, aveva dominato l’assenteismo vescovile accompagnato da un livello d’istruzione e uno stile di vita del clero molto scadenti; non esagerava nel 1550 il giovane magistrato cagliaritano Sigismondo Arquer nel fustigarne l’ignoranza e l’incontinenza; l’arcivescovo di Cagliari Parragues de Castillejo reputava miracoloso il fatto che, in quelle condizioni, il popolo continuasse a essere cristiano (1560). Filippo II dette valore di legge ai decreti di Trento e riuscì a dotare la Sardegna di un corpo episcopale culturalmente qualificato e determinato a realizzare la riforma. Le risorse economiche furono garantite da un’accurata riscossione delle decime sacramentali, un’operazione che divenne – lungo tutto l’ancien régime – un affare di Stato: su ogni rendita vescovile, infatti, il sovrano poteva attingere per un quarto e, dal XVII sec., per un terzo e talvolta anche più, per sdebitarsi verso persone che avevano reso servigi alla corona (pensionistas). Ovviamente, le decime provvedevano anche al mantenimento del clero in cura d’anime, pur con sperequazioni scandalose specie per i vicarii ad nutum (noti come curas), i manovali della cura animarum, poco istruiti, scarsamente motivati e tenuti in stato di precarietà permanente dai titolari dei benefici che giocavano sulla numerosa disponibilità di clero. Eppure, proprio a quel periodo la Chiesa sarda deve la maggior parte dei suoi beni artistici e culturali. Di questi vescovi che servirono sotto Filippo II o che furono scelti da lui, vanno almeno menzionati Salvatore Alepus di Sassari (1524-1566), decano dei vescovi spagnoli a Trento, il già citato Parragues di Cagliari (1558-1573), Pietro Frago (1562- 1572) di Ales e poi di Alghero, autore dei primi sinodi celebrati dopo Trento e primo a usare il sardo nella sua pastorale (un esempio poi disatteso da quasi tutti gli altri vescovi), Nicolò Canyelles di Bosa (1577-1585), che introdusse l’arte della stampa a Cagliari, Andrea Baccallar (1578- 1612) prima di Alghero poi di Sassari, metodico quanto tenace nell’applicare la riforma tridentina, Giovanni Sanna di Ampurias e Civita (1586-1607), già attivo nel riscattare gli schiavi catturati dai barbareschi, Giovanni Francesco Fara di Bosa (1591), iniziatore dello studio sistematico della storia e della geografia dell’isola, Antonio Canopolo di Oristano (1586-1621), mecenate della sua città natale, Sassari, dove portò la stampa, costruì la sede della locale università e fondò un seminario-collegio universitario con una decina di borse gratuite: salvo i primi tre, erano di origine sarda. Anche per la loro tenace determinazione, la facies religiosa dell’isola sperimentò un’inattesa trasformazione che, però, sarebbe stato difficile realizzare se non fossero intervenuti tre fattori di rilievo, oltre la già menzionata determinazione di Filippo II: il primo fu che lo sforzo dei vescovi venne secondato dagli antichi e nuovi ordini religiosi: ai francescani (conventuali, osservanti, e più tardi cappuccini, attivi – questi – soprattutto nelle missioni popolari), ai domenicani e mercedari si aggiunsero nella seconda metà del Cinquecento i gesuiti e un secolo dopo anche gli scolopi, entrambi impegnati nella formazione della gioventù; oltre questa attività da cui nacquero le due università di Sassari e di Cagliari, i gesuiti iniziarono le missioni popolari arrivando nei villaggi più remoti e, durante un secolo e mezzo, non meno di centodieci di loro andarono come missionari nelle colonie spagnole d’America e d’Asia. Il secondo fattore fu costituito dai progressi fatti nell’elevare il tono culturale e morale di buona parte del clero, diventato con ciò stesso più idoneo a gestire la cura animarum. In questo compito esso fu sostenuto dalle confraternite – maschili, femminili e miste –, associazioni volontarie laicali inserite nel vissuto sociale delle rispettive comunità, dotate di autonomia amministrativa e caratterizzate da una maggiore istruzione religiosa e da un certo avviamento alla preghiera personale: esse costituirono il terzo fattore che favorì il progresso della religiosità popolare, anche perché erano presenti in quasi tutti i trecentocinquanta villaggi isolani. Durante gli ultimi settanta anni del periodo spagnolo, segnati da pestilenze e carestie, anche la Chiesa subì i contraccolpi del decadimento generale, si notarono i segni di stanchezza e si aggravarono fenomeni non ancora risolti: anzitutto, l’abnorme proliferazione del clero, ciò che aggravava la situazione dei già noti vicarii ad nutum: l’energico intervento di Pio V che avrebbe voluto trasformarli in vicarii perpetui (1568) riuscì solo per le sedi del nord, non per le altre (Oristano, Ales e Cagliari) che però contavano più del 60 per cento delle parrocchie dell’isola; non meno grave era la mancanza di collaborazione tra i vescovi, incapaci persino di pensare a una pastorale comune per problemi comuni a tutta l’isola; in buona parte, questa mancanza era dovuta all’acceso conflitto tra i presuli di Cagliari e Sassari, che di loro iniziativa si erano autoproclamati «primate di Sardegna e Corsica», uno sciocco conflitto superato soltanto in questi ultimi nostri decenni; continua da allora, invece, la loro pressoché totale chiusura al problema linguistico come indispensabile tramite di inculturazione e di comunicazione della pastorale vescovile: fino ai primi decenni del Novecento, durante le visite pastorali i presuli di origine non sarda si presentavano di solito con l’interprete; fortunatamente, il clero parrocchiale sopperì a questa lacuna, promuovendo l’elaborazione, in entrambe le principali varietà del sardo (logudorese e campidanese), di una fitta serie di sacre rappresentazioni (ad es., quella della deposizione di Cristo dalla croce e il suo seppellimento) e di composizioni in versi facilmente memorizzabili (gòsos, gòccius e gròbbes, equivalenti alle laudi italiane e ai gozos spagnoli) per essere utilizzate, anche in canto, per la catechesi e la preghiera; dalla metà del XX sec. vennero lasciate sconsideratamente decadere.

IL PERIODO SABAUDO (1720-1861). Solo dopo una lunga trattativa (1720- 1726), avendo riconosciuto Vittorio Amedeo II di Savoia come re di Sardegna, la Santa Sede gli conferì il diritto di patronato sulla sua Chiesa e quello di presentare i vescovi alle sedi vacanti, rendendolo in tal modo arbitro della sua stessa vita. Grande interprete della politica ecclesiastica sabauda fu Gianbattista Lorenzo Bogino (1759-1773), chiamato da Carlo Emanuele III (1730-1773) alla direzione generale degli affari di Sardegna; da «cattolico illuminato», era convinto che la rigenerazione del Regno passasse attraverso la riforma della Chiesa: la sua impronta continuerà anche dopo la sua messa a riposo e fin quasi al cambiamento radicale dei rapporti tra Stato e Chiesa nel 1848. Primo obiettivo fu il contenimento del numero degli effettivi del clero diocesano e regolare che nel 1755 superava il due per cento della popolazione (360.392 nel 1751) e il controllo delle sue immunità (personale, locale e reale). Esso venne raggiunto con un’azione in pari tempo morbida ed energica, facendo sì che le riforme fossero appoggiate da specifici atti pontifici; nel 1848, su una popolazione di 552.052, il clero rappresentava ancora lo 0,5 per cento. Non meno importanti furono gli altri risultati: il primo fu la rifondazione economica e culturale dei seminari che, insieme con le due università finalmente riformate, diventavano il passaggio obbligato per coloro che aspiravano agli ordini sacri, garantendone così una formazione meno aleatoria; il secondo fu la tanto attesa trasformazione dei vicarii ad nutum in vicarii perpetui (1769); il terzo obbediva al disegno di non lasciare nell’abbandono religioso popolazioni e territori che non potevano essere curati con le esistenti sedi vescovili, ciò che portò sia al ripristino di alcune antiche diocesi scegliendo però nuove sedi (Sulci-Iglesias, Galtellì-Nuoro, Bisarcio-Ozieri e Suelli-Ogliastra) sia all’obbligo, per vescovi di sedi malariche, di costruirsi un episcopio estivo in un luogo salubre, onde non assentarsi più dalla diocesi. Il cosiddetto «decennio rivoluzionario» (1792-1802), durante il quale l’isola fu sfiorata dalla Rivoluzione francese, si prolungò con il soggiorno della corte sabauda a Cagliari, durato fino al 1814: la Chiesa accettò con lealtà i gravissimi sacrifici economici imposti dalla situazione e per decenni, tramite il monte di riscatto, contribuì con i suoi beni a estinguere il debito pubblico gravante unicamente sull’isola: tra l’altro, negli anni 1807-1848, tutte le diocesi subirono mediamente quindici anni di vacanza, le cui rendite furono destinate in buona parte a beneficio dello Stato; invalse persino l’uso di ottenere il consenso regio anche per l’avvicendamento del clero nelle parrocchie. La Chiesa sarda non era dunque preparata al superamento dell’ancien régime con la stretta alleanza tra trono e altare, meno ancora a vederla sostituita da un clima segnato, dopo il 1848, da un gratuito anticlericalismo d’importazione: così le toccò assistere alla sua esclusione dalle scuole, dalle università (1847) e dalle strutture caritative e ospedaliere da lei stessa fondate, all’esilio dell’arcivescovo di Cagliari che poté tornare in sede solo per morirvi (1866), alla soppressione del foro ecclesiastico (1850), all’abolizione delle decime (1853) sostituite – anche dopo la soppressione delle congregazioni religiose (1855) – da un assegno pecuniario sempre più svalutato e aggiornato solo dopo la grande guerra, alle leggi eversive dell’asse ecclesiastico nel 1866 e 1867; insomma, da una situazione di corpo privilegiato, Chiesa e clero sardi si sentirono trattati come corpo estraneo, se non proprio da eliminare almeno da sorvegliare con diffidenza e persino con ostilità; intanto, la maggior parte delle sedi vescovili erano rimaste vacanti e solo a partire dal 1871 si raggiunse un modus vivendi per la nomina dei nuovi titolari.

LA CHIESA SARDA NELLA CHIESA ITALIANA. Fu in questo clima di sbandamento che, tra il 27 aprile e il 13 maggio 1876, si riunirono a Oristano i dieci vescovi; fin dall’inizio dell’incontro, il conflitto tra Cagliari e Sassari per il titolo di «primate di Sardegna» venne finalmente percepito come «il muro di divisione nella Chiesa sarda», che fino a quel momento l’aveva privata del «centro di azione indispensabile nell’ordine gerarchico» per rispondere tempestivamente alle sfide che richiedevano risposte immediate; occorreva «atterrarlo», prescindendo per il momento da esso e stabilendo un metodo perché, in caso di necessità, «non più nell’avvenire mancasse chi potesse prendere l’Iniziativa nelle pratiche di comune interesse». Lo si sarebbe detto un estremo sussulto di vitalità, un fenomeno che, fino ad allora, non sarebbe stato neanche immaginabile perché né il sovrano né il papa l’avrebbero permesso; il primo perché, in regime di alleanza tra trono e altare, toccava solo a lui il compito di difendere la Chiesa, il secondo perché con tutta l’insistenza sui sinodi diocesani annuali, la curia romana non favorì altrettanto quelli provinciali che, pure, avrebbero dovuto essere triennali; quanto ai nazionali, non erano stati neanche previsti. È anche significativo che, a differenza del congresso episcopale del 1850 celebrato sulla scia di altri tenuti in varie regioni d’Italia e benedetti da Pio IX, questo del 1876 fu forse deciso autonomamente, ben inteso dopo aver ottenuto l’assenso papale. Vi si discussero tutti i temi in qualche modo connessi con il nuovo ordinamento politico e furono spedite una serie di lettere «al Governo del Re» sulle università, sull’esenzione dei chierici dalla leva, «sul sussidio del Clero», «sulle case vescovili». Sembra tuttavia che quell’acuta presa di coscienza della necessità di far quadrato di fronte alla crisi dominante si fosse presto appannata se è vero che, prima nel 1890 e poi ancora nel 1906, furono necessari specifici interventi della Santa Sede perché i vescovi sardi riprendessero le loro riunioni. Da questo momento, prima per opera di Pio X e poi in misura minore di Pio XI, l’episcopato sardo si presenta come il risultato della «colonizzazione » ecclesiastica di alcune regioni italiane, soprattutto meridionali, da parte di altre, solitamente del Nord: la stessa Chiesa sarda tende a sfumare le proprie peculiarità per lasciarsi inserire nella realtà ecclesiastica nazionale, affrontando così le mutazioni nella pratica religiosa e adeguandosi alle nuove forme di rinnovamento e di associazionismo cattolico come l’irruzione di una nuova presenza femminile nella vita della Chiesa sia in forma individuale sia attraverso l’adesione a gruppi dedicati al servizio dei meno fortunati, per rispondere al fenomeno dell’emigrazione, al dramma della grande guerra, ai problemi del dopoguerra, del ventennio fascista, del secondo conflitto mondiale e del nuovo dopoguerra con l’avvento della democrazia. Momento forte di questa fase fu il primo concilio plenario sardo (Oristano, 18- 25 maggio 1924), presieduto dal cardinale Gaetano De Lai, legato a latere di Pio XI: era la prima volta, dopo settecento anni dal sinodo di Santa Giusta (novembre 1226), che i vescovi sardi – ma lo erano veramente solo due su undici – si trovavano ancora insieme: anche questa volta l’incontro era voluto dalla Santa Sede e mirava a far recepire le norme del nuovo codice di diritto canonico alla Chiesa sarda. In conformità con l’allineamento burocratico di questa sulla Chiesa italiana, due cose sembrano meritevoli di segnalazione: la prima era la ben nota marginalizzazione della lingua e della cultura sarde a beneficio di quelle italiane; la seconda era la raccomandazione a «parroci e predicatori» di usare la «massima cautela», e «soltanto dopo ottenuta l’approvazione del vescovo », nell’esporre quanto Leone XIII aveva scritto «sui principi cristiani della proprietà, del giusto salario e del lavoro»; forse entrambe le cose – quasi di certo la seconda, che doveva essere una delle «emendationes » che i cardinali della congregazione del concilio avevano aggiunto al testo già approvato dai vescovi – riflettevano il particolare clima tutto teso al felice esito delle trattative di conciliazione tra Stato e Chiesa. Paradossalmente, proprio gli anni del ventennio fascista contribuirono a rafforzare il legame tra i vescovi anche per rispondere alle aggressioni del regime contro i cattolici organizzati, in particolare le associazioni giovanili di Azione cattolica. Tra i vescovi, tuttavia, si notò molta prudenza e solo Giuseppe Cogoni di Nuoro e il suo quindicinale «L’Ortobene», che subì alcuni sequestri, si distinsero per il loro quasi sempre rigoroso e coerente «afascismo ». Anche durante la seconda metà del secolo, le vicende della Chiesa sarda continuano ad appiattirsi – con un certo inevitabile sfasamento temporale – su quelle della Chiesa italiana, dal secondo dopoguerra alla lunga stagione del collateralismo politico con la Dc, alla scoraggiante impreparazione di fronte alle speranze suscitate dal Vaticano II. Per quanto riguarda la situazione attuale, nel 2004 la Chiesa sarda contava su 844 preti diocesani, 362 religiosi e 2020 religiose, a fronte di una popolazione di 1.680.350 abitanti, cifre non molto diverse – salvo l’invecchiamento fisiologico – da quelle del 1991: 880, 358 e 2403, per una popolazione di 1.651.902. Si può dire che anche la crisi vocazionale esplosa dopo il Vaticano II, con il solito ritardo rispetto a quella nazionale (si passò da una media di ventisette ordinazioni presbiterali annue tra il 1940 e il 1970 – durante alcuni anni, però, i soli preti diocesani furono 1074 nel 1968 e 1087 nel 1970 – a circa dieci nel decennio seguente), si sia in certo modo stabilizzata: da allora, quella media si è mantenuta costante fino a tutto il 2004. Dopo il trasferimento del Pontificio seminario regionale da Cuglieri a Cagliari nel 1971 – fino ad allora era stato affidato, insieme all’annessa facoltà di teologia, alla Compagnia di Gesù – il seminario viene gestito dalla Conferenza episcopale sarda, mentre la facoltà è stata ed è tuttora affidata alla Compagnia, essendone però gran cancelliere il presidente della Conferenza episcopale sarda. Prima di concludere, un rapido cenno al ruolo dei vescovi come corpo collegiale, anche perché la fine del secondo millennio e gli inizi del terzo sono segnati dal secondo concilio plenario sardo (1987- 2001). La riscoperta, durante il ventennio fascista, della collegialità tra i presuli isolani, si era protratta anche nell’immediato dopoguerra, con la celebrazione, tra l’altro, di alcuni congressi regionali e la fondazione del primo quotidiano cattolico, il «Quotidiano sardo» (1947). Un clima di breve durata: vi influirono forse l’inaspettata morte di Giuseppe Cogoni di Oristano (1947) e quella del venerato decano dell’episcopato sardo, Ernesto Maria Piovella di Cagliari (1949). Da quest’anno, i resoconti delle conferenze episcopali, fino ad allora puntuali e dettagliati, o non compaiono più nel «Monitore ufficiale dell’episcopato sardo» per dare spazio soprattutto ai discorsi di Pio XII qualunque ne fosse l’argomento, o sono quasi sempre ridotti a disposizioni vessatorie sulla condotta esteriore del clero: nel 1959 il «Monitore » avrebbe cessato di esistere; due anni prima era stata la volta del «Quotidiano sardo»; nel 1963 ebbe fine il calendario liturgico comune che, per oltre sessant’anni aveva regolato preghiere e funzioni liturgiche in tutta l’isola; le due ultime pubblicazioni furono sostituite da altre analoghe ma per le singole diocesi o gruppi di diocesi; quelle di Cagliari, in particolare, si contraddistinsero per il loro carattere isolazionistico, fino al punto da non dare notizia neppure della nomina o della morte dei vescovi di altre diocesi. In effetti, i singoli vescovi avevano l’aria di essere troppo impegnati nei problemi delle proprie diocesi (con qualche ragione: tra il 1948 e il 1970, ad esempio, vennero fondate nell’isola centoventi nuove parrocchie, circa un terzo in più del totale di quelle che esistevano agli inizi del secolo) per accorgersi della drammatica situazione comune a tutta l’isola, diventata una dolorante «società del malessere». Inevitabile che l’episcopato sardo, in ciò non dissimile da quello italiano, si presentasse al concilio Vaticano II non solo in ordine sparso, ma anche con attese e richieste quasi sempre sotto misura rispetto a quelle che emergevano dalla Chiesa universale e dalle aspirazioni profonde della stessa società nella quale si voleva annunciare il Vangelo: anzi, più il concilio procedeva nelle sue varie fasi e si entrava nei decenni dell’immediato postconcilio e più si aveva l’impressione che, fatto salvo l’impegno e la generosità dei singoli, la consapevolezza della collegialità nel corpo episcopale si andasse sempre più affievolendo. Basta pensare all’ennesima occasione perduta durante il dibattito sull’assetto delle nuove circoscrizioni diocesane in preparazione della revisione del concordato del 1986: persino alcune ovvie proposte di razionalizzazione territoriale delle diocesi vennero respinte perché non rispondenti alle «venerande tradizioni» delle Chiese o «alle esigenze pastorali dell’Isola». Fu perciò una notizia del tutto inaspettata e che destò interesse e speranze all’interno della Chiesa e in molti ambienti della società sarda, quella data in contemporanea da tutti i vescovi il giovedì santo 16 aprile 1987: nell’approssimarsi del terzo millennio, essi si impegnavano a celebrare il secondo concilio plenario sardo, in modo che l’intera Chiesa avesse l’opportunità di rinnovarsi nell’appassionata dedizione all’annuncio e alla pratica vissuta del Vangelo. In effetti, per qualche anno si procedette con buon ritmo, ma presto sulla tabella di marcia si abbatté una serie di ritardi, alcuni inevitabili, i più derivanti dalla scarsa convinzione che sembrava serpeggiare all’interno dello stesso corpo episcopale: passarono infatti quasi otto anni senza che si facessero significativi passi avanti fino al dicembre 1998. Difficile non pensare che fosse l’avvicinarsi dell’imminente visita ad limina, durante la quale i vescovi avrebbero dovuto dare conto a Giovanni Paolo II di tutti quei ritardi, a convincerli che bisognava stringere i tempi e concludere il concilio entro la fine del millennio, al più tardi agli inizi del Duemila. Gli impegni vennero effettivamente rispettati e il 28-29 febbraio del 2000 si tenne a Sassari la sessione finale del concilio con l’approvazione definitiva dei testi conciliari – rielaborati dal padre Sebastiano Mosso della Pontificia facoltà teologica della Sardegna – che vennero inviati a Roma, dove la Congregazione dei vescovi li trovò (9 febbraio 2001) «di elevato livello dal punto di vista sia teologico che pastorale e giuridico» e li approvò (18 maggio 2001). In data 1° luglio 2001, nella basilica di Bonaria a Cagliari, l’episcopato sardo, compresi gli emeriti, li promulgò solennemente decretando che entrassero in vigore a partire dal 2 dicembre 2001. A QUESTO INDIRIZZO GLI ATTI DEL CONCILIO PLENARIO SARDO.

Bibliografia

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(*) Fonte: Totale dei dati diocesani desunti dall’Annuario Pontificio, edizione 2019, e dall’archivio dell’Istituto Centrale per il sostentamento del clero, aggiornamento mensile